In India la Corte Suprema ha deciso, è necessario avere delle linee guida affinché nei processi non ci siano disparità di genere o stereotipi. Questo vero e proprio manuale sarà destinato ai giudici e sono molto i termini che saranno vietati e che non dovranno essere usati nei processi o sentenze, poiché potrebbero influenzare l’esito. Una vittoria molto importante nell’ambito della giustizia, sperando sempre che questo sia equo e giusto. Peccato che a quanto pare in Italia non si è della stessa idea, prendendo in considerazione le ultime sentenze che hanno soltanto colpevolizzato le vittime, invece di difenderle. A quanto pare però la decisione in India della Corte Suprema era più che necessaria, fondamentale il manuale per combattere gli stereotipi di genere.
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Cosa vieta il manuale guida della Corte Suprema
Siamo vicini a quello che è un vero e proprio progresso legato al sistema giudiziari, sperando che questo possa diventare con il tempo più inclusivo ed equo. In India, La Corte Suprema, ha recentemente reso noto di aver pubblicato un manuale che i giudici dovranno seguire in luogo di processo, importante per un impegno verso l’eliminazione dei pregiudizi e quindi stereotipi di genere e promozione dell’uguaglianza nel sistema indiano.
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In primis il manuale sottolinea come sia essenziale eliminare o evitare termini dispregiativi come seduttrice, prostituta o zitella. Termini di uso quasi comune che possono però influenzare l’esito di un processo e anche portare avanti stereotipi di genere contro cui si sta lottando ogni giorno. In particolar modo vediamo come i termini “proibiti” siamo legati alla figura femminile e quindi dannosa per l’immagine della donna. Parole che in modo assurdo in India sono frequentemente usati, poiché specialmente le violenze sessuali vengono tutt’ora minimizzate e spesso accostate quasi ad un gioco o scherzo.
Verrebbe da dire che dopo le notizie di quest’anno anche l’Italia su questo fronte non sembra poi tanto avanti, ma anzi stia compiendo dei passi disastrosi verso il “medioevo”. In India, il Capo della Giustizia, Dhananjaya Y Chandrachud, ha portato alla luce le problematiche dei termini usati nei tribunali indiani, affermando che era necessario porre dei limiti per non compromettere l’imparzialità nell’applicazione delle leggi. Addirittura sembra essere pratica normale chiedere allo stupratore se ha intenzione nello sposare la vittima. Come è possibile ammettere e accettare che un giudice ponga questa domanda?
Il problema ovviamente è da ricercarsi nella cultura indiana e nei valori così radicati nella società, che ovviamente risulta più che patriarcale. Non bisogna però minimizzare la decisione presa e il voler sostituire questo manuale guida, infatti è vitale aver riconosciuto come le parole possano avere un peso effettivo nei giudizi. Basta quindi poco per sovvertire un giudizio, una condanna o sentenza.